Ragazzi: 350 mila ettari di agricoltura bio in Sicilia: chi è che controlla questa produzione?

16 aprile 2017

Ce lo chiediamo perché l’attuale Governo regionale considera un ‘successo’ aver erogato 340 milioni di Euro di contributi a fondo perduto di risorse finanziarie europee. Ma forse, oltre a ‘sbloccare’ questi pagamenti a pochi mesi dalle elezioni, il Governo regionale ci dovrebbe dire non solo chi ha certificato i prodotti, ma chi ha controllato frutta, verdura e ortaggi ‘bio’ prodotti in Sicilia. Vi raccontiamo perché questa storia è poco convincente  

“Quello che è più incomprensibile è che ci sia ancora qualcosa di comprensibile”, ci ricorda Albert Einstein. Detto questo, tra quello che resta di comprensibile, almeno per chi scrive, non c’è il mondo dell’agricoltura biologica della Sicilia, che rimane invece misterioso. Nei giorni scorsi abbiamo letto una dichiarazione numerica della Coldiretti, in base alla quale la nostra Isola sarebbe la prima Regione italiana per la produzioni biologiche, con una superficie pari a 350 mila ettari.

Ecco, i numeri. Se ci riflettiamo, 350 mila ettari sono, per l’appunto, gli ettari investiti a coltura biologiche; mentre 340 milioni di Euro sono i fondi europei che si spendono in sette anni in Sicilia a sostegno dell’agricoltura biologica. Facendo una semplice divisione, siamo intorno a 49 milioni di Euro all’anno a sostegno dell’agricoltura biologica.

Si tratta di contributi a fondo perduto. Soldi che non debbono essere restituiti. Se trasformiamo questi fondi in vecchie lire, prendiamo atto che ogni anno, in Sicilia, si spendono quasi 100 miliardi di vecchie lire per sostenere l’agricoltura biologica! Una somma enorme. Ribadiamo: tutti contributi a fondo perduto.

Ora facciamo il raffronto con un segmento di agricoltura di qualità, di vera agricoltura siciliana di qualità: i grano duri antichi della Sicilia. In parte si tratta di colture biologiche, in parte si tratta di varietà di grano duro antiche coltivate con i metodi tradizionali.

Perché questo raffronto? Semplice: per dire che in Sicilia, allo stato attuale, gli ettari coltivati con le varietà (o cultivar) di grano duro antiche sono, sì e no, appena 5 mila.

Pensate: con appena 5 mila ettari di terreno coltivati, mezzo mondo parla oggi di alcune varietà di grano duro antiche: Tumminia o Timilia, Russello, Perciasacchi, Senatore Cappelli e via continuando. Addirittura, ci sono aziende del Nord Italia – a Milano e a Torino – che producono la pasta con i grani antichi della Sicilia (come vi abbiamo raccontato in questo articolo). E poiché è molto improbabile che in Lombardia e in Piemonte si possano coltivare Tumminia e Senatore Cappelli, va da sé che il grano per produrre la pasta le aziende milanesi e torinesi lo acquistino in Sicilia.

Ecco il punto: con 5 mila ettari coltivati con varietà di grano duro antiche tanti consumatori, oggi, conoscono il pane e, soprattutto, la pasta prodotta con questi frumenti. Mentre con 350 mila ettari – 350 mila! – sono in tanti a porsi la domanda: ma dove finisce tutta questa produzione biologica della Sicilia?

Con una superficie così estesa di biologico, a rigor di logica, tutta la Sicilia – e forse mezza Italia – dovrebbe essere invasa dalla frutta, dagli ortaggi e dal grano biologico.

Invece, stranamente, in Sicilia il nostro grano duro (a parte quello prodotto nei 5 mila ettari destinati a grani antichi) rimane in buona parte invenduto a causa dei prezzi troppo bassi.

Se facciamo un giro per gli scaffali della grande distribuzione organizzata ci accorgiamo che la frutta secca siciliana viene in buona parte soppiantata da quella che arriva da mezzo mondo (come vi abbiamo raccontato in questo articolo).

Il pomodoro di pieno campo in irriguo – coltura tipica del Mezzogiorno in Italia – come ci ha raccontato ieri Cosimo Gioia (qui l’articolo), in Sicilia è diventato problematico, sia perché non ci sono industrie di trasformazione, sia perché il costo del lavoro è proibitivo.

L’agrumicoltura siciliana, da sempre settore portante dell’agricoltura della nostra Isola – è in crisi, tra difficoltà di mercato e malattie (le organizzazioni agricole – e segnatamente la CIA – nell’ottobre dello scorso anno, ha fatto sapere che, in due anni, i virus della Tristeza “farà sparire” gli agrumeti della Sicilia, come potete leggere qui, dove si parla di 80 mila ettari di agrumenti a rischio).

La frutta estiva, un tempo gloria e vanto della Sicilia, oggi, nell’80% dei casi, è immangiabile. Gli agricoltori siciliani non sono bravi a coltivarla? Non esattamente. Non debbono essere molto bravi gli agricoltori che la coltivano in Asia e nel Nord Africa: eh già, perché, in buona parte, la frutta estiva arriva da lì: e, con rispetto parlando, non sa di nulla.

Quanto all’olivicoltura siciliana, vi possiamo garantire che solo una piccola parte è gestita in biologico.

Vi assicuriamo, inoltre, che la viticoltura – da vino e, soprattutto, da tavola – senza alcuni trattamenti chimici, che dipendono comunque dall’andamento climatico, è quasi impossibile.

Ribadiamo la nostra domanda: dove finisce tutta la produzione biologica siciliana?

Ancora: abbiamo appurato che i lati delle strade della Sicilia vengono diserbati con i diserbanti chimici (a quanto pare con il glifosato, ma non soltanto) (come potete leggere qui).

Da qui un’altra domanda: come si concilia l’uso massiccio di diserbanti chimici con i 350 mila ettari di colture biologiche? Forse, in Sicilia qualcuno ha abolito il cosiddetto “effetto deriva” con un decreto legge e non ci hanno detto nulla?

Per la cronaca, l’effetto deriva in agricoltura è il movimento nell’atmosfera del prodotto chimico utilizzato per combattere agenti patogeni delle piante. Si tratta di particelle sospese nell’aria che si muovono sempre nell’area trattata verso una qualunque direzione.

La deriva non comprende il trasporto del prodotto chimico – pesticida o diserbante – attraverso l’atmosfera in forma gassosa, cioè volatilizzato. Nell’effetto deriva non rientra nemmeno l’allontanamento, eventualmente causato del vento, di particelle di suolo contenenti il prodotto stesso. In entrambi i casi si tratta comunque di inquinamento.

Insomma: chi è che controlla ‘sta produzione biologica siciliana?

Non ci riferiamo a chi la ‘certifica’: ci riferiamo ai controlli sui prodotti, che sono cosa ben diversa da quello che c’è scritto nei cartellini, o dalle rassicurazioni verbali di chi vende questi prodotti ‘biologici’.

 

 

 

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