Giletti e “L’Arena”? Sono gli eredi dei razzisti antimeridionali di fine ‘800, da Lombroso a Niceforo a Ferri…

15 aprile 2017

Dicono che il PD di Renzi sia l’erede della DC. Niente di più sbagliato. I democristiani mai e poi mai avrebbero consentito a un programma di RAI 1 di offendere una domenica sì e l’altra pure i meridionali come succede con L’Arena di Massimo Giletti. Oltre al rispetto per i cittadini, la classe dirigente democristiana sapeva che il Sud Italia è un vulcano che potrebbe risvegliarsi. Gli attuali governanti italiani sono riusciti a risvegliare la rabbia di milioni di meridionali. Se a questo aggiungiamo le verità che storici prezzolati e infingardi hanno nascosto sul quel grande imbroglio che è stato il risorgimento nel Mezzogiorno, la frittata è fatta…  

di Ignazio Coppola

Ormai, senza soluzione di continuità, domenica dopo domenica il “piemontese” Massimo Giletti nella sua trasmissione televisiva L’Arena con la sua maniacale fissazione antimeridionale e antisiciliana. Ogni settimana non manca di buttare fango sul Sud e sui siciliani. Questo parassita dell’emittenza televisiva e “crociato” viscerale dell’antimeridionalismo ormai si è conquistato sul campo o, per meglio dire, nella sua “Arena” a buon diritto il ruolo di “razzista” mediatico e degno erede di quel razzismo antimeridionale ed antisiciliano che, da sempre, è allignato nel nostro Paese dall’Unità d’Italia ai nostri giorni.

Massimo Giletti, con le sue reiterate trasmissioni di dileggio e di disprezzo nei confronti dei meridionali, incivili, mafiosi, furbetti del cartellino, maestri degli abusi edilizi e via dicendo dimostra di essere, oltre ogni ragionevole dubbio, il degno erede della scuola antropologica di Cesare Lombroso, di Alfredo Neciforo e dei vari Ferri, Sergi, Orano e Garofalo che definirono nelle loro allucinanti e razzistiche teorie i meridionali razza criminale ed inferiore.

La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità del Paese. Si continua ad ignorare che, alla base di una mala unità d’Italia, vi fu – come del resto continua ad esserci, retaggio di quel passato – un’ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud.

Infatti, che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio, che fu Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata, tra l’altro così scriveva:

”In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura: è come mettersi a letto con un vaioloso”.

Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al Comune di Milano, che oggi viene spudoratamente a chiedere i voti dei meridionali e dei siciliani, Matteo Salvini:

“Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”.

Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato, se non in peggio e Giletti ne è un esempio pratico. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva:

“Un Paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”.

Sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino troviamo il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II, inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio”. Cialdini, a proposito dei territori in cui si trovò a operare, in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva:

“Questa è Africa, altro che Italia! I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”.

Enrico Cialdini era lo stesso che, alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene:

“Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”.

Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini.

Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire, che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta.

Ed ancora, a ulteriore testimonianza di questi propugnatori del razzismo antimeridionale, vale la pena di ricordare quanto scriveva, all’alba dell’Unità d’Italia, il generale conte Luigi Menabrea, comandante del genio del corpo d’armata piemontese di stanza nell’ex Regno delle Due Sicilie, alla baronessa Olimpia Savio Rossi dal comando di Castellone di Gaeta il 26 dicembre del 1860:

”I meridionali sono simili agli ottentotti (si riferiva ai Boscimani la popolazione che abitava l’Africa meridionale), nonostante il loro Bel Paese e le loro grandi memorie. L’abbassamento del senso morale e della dignità personale della popolazione sono le cose che colpiscono di più. Sotto gli stracci disgustosi che coprono le contadine non si riconosce più questa bella razza italiana, che sembra finire nel territorio romano”.

Il conte piemontese Luigi Menabrea sarà poi, dal 1867 al 1869, Presidente del Consiglio dei ministri del nuovo regno d’Italia e, non perdendo la sua propensione razzista e la sua avversione nei confronti dei meridionali, si distinguerà nella spasmodica ricerca, nella sua qualità di capo del Governo, di territori fuori dall’Italia, in Patagonia (Argentina) prima e nell’isola di Socotra (Portogallo) in cui deportare – essendo le carceri italiane strapiene – migliaia e migliaia di prigionieri meridionali.

Per fortuna il criminale disegno di Menabrea e del Governo sabaudo non andò a buon fine per la decisa opposizione dell’Argentina e del Portogallo, che eccepirono problemi di sovranità che, giustamente, rivendicavano sui propri territori.

E che dire poi del generale Giuseppe Covone, mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie di meridionali e di compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno Parlamento:

”Nessun metodo poteva aver successo in un Paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”.

Ed infine, per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali, val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli:

“La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”.

E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia:

”Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome, poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”.

Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero, a spese del Sud, depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia.

Su questi pregiudizi, nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese, poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giusepe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo. ‘Studiosi’ che si affrettarono a dare un’impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione.

Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei Quaderni dove scrive:

“La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”.

L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud ostacolandone in ogni modo la crescita, prevaricarono ogni ipotesi di sviluppo dell’economia meridionale. Significativo, in questo senso, fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini, direttore della banca nazionale degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente, governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882, prima dell’Unità d’Italia:

”Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”.

Negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, Carlo Brombini, tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista, fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali.

Riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale. Un rapporto che ha visto le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente.

Lo scrittore ceco, Milan Kundera, protagonista della primavera di Praga, nel suo Il libro del riso e dell’oblio ci regala un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia:

“Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”.

Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed un’occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori” quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare l’inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare.

Questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia dalla scuola positivista di Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi come i già citati Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo, propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica. Sono questi gli ‘studiosi’ che hanno messo a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali, teorizzando l’inferiorità della razza meridionale.

Cesare Lombroso, antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia, colui il quale elaborò le sue teorie sull’inferiorità etnica dei meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica dell’inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di un’omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani. I settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore.

Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore!

Niceforo, in un suo libro del 1898, L’Italia barbara contemporanea descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Quest’ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa – sostiene ancora Gramsci – in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione.

“Il Mezzogiorno è la palla al piede”, si diceva allora. Tesi che, di fatto, una domenica sì e l’altra pure, ci ripropone Massimo Giletti. I meridionali sono – secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci – biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari.

Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli dove c’era scritto:

“Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. O, ancora: “Non si affittano case ai meridionali”.

Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può, alla luce di tutto questo, parlare oggi di unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo Paese?

E certamente ancor più non ci si può indignare, da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni, se spesso i meridionali, in occasioni di manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni e, soprattutto, l’ex Presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, quando, anziché compiacersi, come avvenne qualche anno fa, di inaugurare a Caprera, con la solita usata ed abusata retorica, il museo dedicato alle memorie garibaldine, da buon meridionale e da buon napoletano avrebbe fatto bene ad indignarsi per il fatto che, a Torino, poco prima, nel novembre del 2009, era stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso (che, a quanto pare, da allora, essendo a Torino, che è poi la sua città, è spesso frequentato da Massimo Giletti).

Questo museo, ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale, sancisce che, ancora ai nostri giorni, esistono due Italie. Una di serie A ed una di serie B. Quella del Nord, civile e progredita, è di serie A. Quella del Sud è barbara e arretrata.

Questo, in un Paese civile, sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere, da parte di istituzioni responsabili, anziché inaugurarne altri, questo deprecabile museo delle menzogne e degli orrori. Ed altrettanto in un Paese civile non sarebbero consentite trasmissioni domenicali antimeridionali come quella di Massimo Giletti che, come dicevamo, si è conquistato sul campo la nomea di “razzista mediatico”. Ma purtroppo non viviamo in un Paese civile.

Foto tratta da lospecialista.tv.

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