Slow Food: “Con il CETA addio alle produzioni locali di qualità”. Dove sono i nostri politicanti?

15 febbraio 2017

Premessa: quanto sono inutili i nostri politici? A parte le solite eccezioni, chi sta facendo sentire la propria voce per difendere la nostra agricoltura? Noi vi forniremo i nomi degli eurodeputati siciliani (e italiani) che oggi diranno sì a questo accordo con il Canadà. Intanto leggiamo cosa ne pensa Carlo Petrini, fondatore di Slow Food

di Carlo Petrini

Questa volta ci siamo. Domani (oggi, ndr) il Parlamento Europeo sarà chiamato a ratificare, quasi senza alcuna discussione in aula, l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada, il CETA, firmato il 30 ottobre scorso. Se il testo venisse approvato (stiamo parlando di 1600 pagine di clausole che verranno semplicemente approvate o rifiutate in blocco) una buona parte del CETA entrerebbe immediatamente in vigore, in attesa della votazione di ciascuno dei parlamenti nazionali.

Chi ha a cuore il futuro dell’agricoltura di piccola scala e della produzione alimentare di qualità non può che sperare che l’accordo venga rigettato. Ancora una volta, infatti, siamo di fronte a una misura volta a promuovere, sostenere, difendere e affermare esclusivamente gli interessi della grande industria, a scapito sia dei cittadini che dei piccoli produttori. Non è un’esagerazione, così come non è un caso che l’opposizione a questo trattato abbia raccolto in pochi mesi 3,5 milioni di firme.

Facciamo un paio di esempi per provare a capire meglio: oggi in Europa ci sono circa 1300 prodotti alimentari a indicazione geografica, 2800 vini e 330 distillati. Di tutti questi, il CETA così com’è scritto oggi ne tutelerebbe 173. Questo significa che denominazioni di origine che siamo abituati a considerare indicative di prodotti con un forte legame con un territorio e con una tecnica produttiva tradizionale e consolidata potrebbero essere tranquillamente imitati oltre oceano, senza essere passibili di alcuna sanzione. E il caso potrebbe avvenire anche al contrario, se non fosse che il Canada non ha un sistema di indicazione geografica delle produzioni. Non basta? Allora un altro esempio: la carne europea ha standard di produzione decisamente più stringenti di quella nordamericana: gli ormoni per accelerare la crescita non sono ammessi, le carcasse non possono essere trattate con il cloro, sono richiesti standard di benessere animale e di dimensione delle fattorie. Questo fa sì che fino ad ora, grazie anche a politiche di protezione daziaria, nonostante la carne di maiale canadese costasse meno della metà di quella europea, il mercato interno potesse sopravvivere. Il CETA non liberalizzerebbe (almeno per il momento) le tecniche produttive, ma toglierebbe tutti i dazi sulle importazioni di carne. Considerando che le dimensioni medie di una fattoria di maiali in Canada sono di 2000 capi e quelle europee di meno di 500, che cosa stiamo chiedendo ai nostri allevatori per competere? Di contrarre i costi in termini di qualità e remunerazione del lavoro, benessere animale, concentrazione della filiera. C’è futuro per i piccoli in questa giostra? Io credo proprio di no.

E attenzione a non pensare che questo sia un discorso protezionista nei confronti dei contadini europei, perché per altre filiere vale al contrario. La produzione di latte in Europa è afflitta da anni da sovrapproduzione e prezzi vergognosamente troppo bassi. Il Canada invece è riuscito fino ad ora a mantenere livelli remunerativi soddisfacenti. Il CETA aprirebbe il mercato canadese ai prodotti lattiero-caseari europei provocando una caduta dei prezzi oltreoceano e di conseguenza le condizioni di vita degli allevatori. Il discorso è lo stesso dunque: invece di migliorare le condizioni di chi sta peggio si innesca una guerra al ribasso che porta al baratro chi produce bene. Queste misure fanno esclusivamente il gioco della grande industria e della speculazione finanziaria, che peraltro potrà anche citare in giudizio e chiedere i danni a quei governi che attraverso misure legislative come l’imposizione di standard ambientali o produttivi più stringenti, minassero la libertà di azione delle multinazionali. E’ questo il futuro che stiamo prospettando per l’agricoltura?

Gli accordi internazionali di libero scambio non funzionano e non sono utili se non servono a incrementare gli standard di produzione (ambientali e sociali) e a tutelare gli interessi dei più deboli. Questo non è il caso del CETA, non era il caso del TTIP, non quello del TPP né di quelli che verranno. Firmarli significa rinunciare alla funzione regolatrice e di indirizzo che deve essere prerogativa dei governi per privatizzare anche i processi decisionali. La speranza è che i parlamentari europei se ne rendano conto”.

tratto da http://www.slowfood.it/

ndr

In tanti articoli- alcuni li trovate qui sotto- vi abbiamo parlato di questo accordo in relazione al grano. Già le industrie alimentari italiane importano grande quantità di grano canadese ricco di glifosato, un veleno per la nostra salute. Con l’accordo, come scrive un’altra esponente di spicco si Slow Food sul sito de l’Unità non ci sarà più scampo. L’unico modo per proteggerci sarebbe vietare, a livello europeo, l’uso di questa sostanza, ma non ne hanno nessuna intenzione. 

Il grano duro del Sud Italia alla resa dei conti: questa settimana il voto del Parlamento Europeo sul CETA

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