Il 2017 si apre con due navi cariche di grano arrivate a Manfredonia dall’Ucraina

4 gennaio 2017

A parole si dice che l’Italia deve smetterla di importare grano estero pieno di sostanze dannose per la nostra salute. Nei fatti le navi continuano ad arrivare, come denuncia il sito ‘Su la testa’ di Gianni Lanes. Non certo casuale la scelta del porto di Manfredonia (nella foto sopra), a due passi da Foggia. Così al glifosato e alla micotossina DON del grano duro canadese prodotto nelle aree umide aggiungiamo il dubbio dei metalli pesanti e della radioattività. I rapporti tra UE e Ucraina. Il ruolo delle multinazionali. L’attesa del pronunciamento della stessa UE sull’obbligo di indicare la provenienza del grano nei pacchi di pasta 

Il 2017, per l’Italia del grano, si è aperto con l’arrivo di due navi cariche di questo cereale. Sono il cargo Azov Coast, proveniente dal porto russo di Yeysk, e la bulk carrier Matteo Br, arrivata da Nikolaev, Ucraina. Le due navi sono arrivate nel porto di Manfredonia, provincia di Foggia, in Puglia. Battono bandiera ombra, cioè una bandiera di comodo (per la cronaca, la bandiera ombra viene issata da una nave di proprietà di soggetti o società di un’altra nazione: un sotterfugio per evitare il pagamento di tasse e ottenere una registrazione più facile; la nazione che fornisce la bandiera riceve soldi in cambio di questo servizio: l’ennesima dimostrazione che on il commercio del grano a guadagnarci sono in tanti).

A raccontare questa storia è il sito Su la testa, parole e immagini di Gianni Lanes.

Insomma, quello che questo blog racconta da tempo continua a verificarsi puntualmente. L’Italia – Paese dove si produce la pasta che viene esportata in mezzo mondo, e dove il consumo di derivati del grano è tra i più alti d’Europa – si conferma la meta di navi che scaricano grano prodotto chissà dove e, soprattutto, chissà come.

Anche il luogo dove viene deciso di effettuare gli sbarchi non è scelto a caso. Tre giorni fa le due navi erano ormeggiate, come già ricordato, nel cosiddetto porto “alti fondali” di Manfredonia, “un attracco fantasma – scrive Gianni Lanes – ufficialmente inagibile, e dunque secondario dove, singolare coincidenza, non c’erano controlli della Guardia di Finanza, eppure il loro arrivo era ben noto alla locale capitaneria di porto”.

Oggi la grande industria fa sapere che c’è tutta l’intenzione di tornare a utilizzare il grano duro italiano. Sarà così? Ce lo dirà – si spera prestissimo – l’Unione Europea. Che dovrà pronunciarsi su un provvedimento varato nelle scorse settimane dall’Italia. Iniziativa importante, quella adottata dall’Italia: prevede che sui pacchi di pasta vanga indicata l’origine del grano con il quale la medesima pasta è stata prodotta.

Se, anche nell’industria della pasta, due più due fa quattro non ci dovrebbero essere problemi, no? Gli industriali dicono che contano di privilegiare il grano duro, coltura d’elezione del Sud Italia; il grano duro del Sud Italia è, sotto il profilo della qualità, tra i migliori del mondo; se ne deve dedurre che gli industriali della pasta del nostro Paese dovranno essere ben felici di indicare nelle confezioni la provenienza del grano duro.

Ma le cose stanno proprio così? Se la grande industria della pasta deve puntare sul grano duro italiano che sono venute a fare due navi cariche di grano estero nel porto di Manfredonia, a due passi da Foggia, una delle ‘Capitali’ – insieme con la Sicilia – del grano duro italiano?

Tutti sappiamo che certi grani di provenienza estera possono non essere un toccasana per la salute umana. La storia ormai la conosciamo: il glifosato, le micotossine DON e anche metalli pesanti e perfino sostanza radioattive.

“Tanto che importa la salute pubblica, se poi per salvare le apparenze i ‘grandi’ marchi nostrani appiccicano la bandiera tricolore sulla merce in tavola, e l’illusione funziona”, scrive Gianni Lanes.

Citando l’ultimo rapporto di Greenpeace – Nuclear scars: The Lasting Legacies of Chernobyl and Fukushima – il sito Su la testa introduce il tema dell’inquinamento. Così la memoria torna a Chernobyl e alle zone limitrofe, aree dove si coltivano i cereali.

“Per non farci mancare nulla – scrive sempre Gianni Lanes – il Belpaese fa incetta dall’estero (in particolare dal Canada) di un prodotto della terra trasformato nello Stivale in pasta per bambini con cadmio e piombo, spaghetti al glifosato, grano duro con micotossine cancerogene. Il grano tenero – spesso radioattivo – lo importiamo addirittura dalla Francia.

Insomma: non siamo solo noi a sollevare questi temi.

Nell’articolo si ricorda che l’Italia, oggi, produce il 50% del proprio fabbisogno complessivo di cereali. “Per quanto riguarda il grano – leggiamo sempre nell’articolo – importiamo più del 50 per cento del grano tenero per pane e prodotti da forno, e il 30/40 per cento del grano duro usato per fare la pasta”.

Non sappiamo qual è la situazione del grano tenero, che è coltura tipica del Centro Nord Italia; ma sappiamo qual è, invece, la situazione nel Sud Italia dove, a causa della politica dei prezzi bassi imposti dalle multinazionali e dalla politica agricola dell’Unione Europea (che, guarda caso, coincide con gli interessi delle multinazionali: chissà perché!), circa 600 mila ettari di seminativi, negli ultimi anni, sono stati abbandonati.

Ora se gli agricoltori sono costretti a non coltivare più i propri terreni dove si produceva grano duro, questo grano duro da qualche parte deve arrivare: e, infatti, arriva con le navi cariche di grano duro al glifosato, alle micotossine DON e di altri veleni.

Parlano i fatti. E parlano, soprattutto, i ‘numeri’:

“Nel 2016 l’Italia – leggiamo sempre nell’articolo di Gianni Lanes – ha circa quadruplicato il grano di importazione dall’Ucraina rispetto all’anno precedente, passando dalle 139 mila tonnellate del 2014 a 600 mila tonnellate. L’ex nazione sovietica – nostro importante fornitore di mais per mangimi – è anche il terzo fornitore di grano per l’Italia. L’aumento di importazioni di grano dall’Ucraina risponde ad una precisa strategia dell’Europa di fare nuovamente di questo gigante agricolo ‘il granaio d’Europa’. In questa direzione va l’accordo di libero scambio tra UE e Ucraina, entrato in vigore il 1 gennaio 2016, che ha eliminato in parte i dazi di importazione rendendo più competitivo il grano ucraino”.

Non ci vuole molto a capire che l’Unione Europea sta ‘schiacciando’ la produzione di grano duro del Sud Italia che, lo ribadiamo ancora una volta, è una delle migliori produzioni del mondo. Da una parte c’è l’accordo tra UE e Ucraina; dall’altra parte c’è l’accordo commerciale tra UE e Canada (il CETA, approvato alla fine dello scorso anno), che ovviamente riguarda anche il grano duro; per chiudere il cerchio si parla del ritorno in grande stile del Set-aside (in inglese, letteralmente, “mettere da parte”): se non coltivi i tuoi terreni a grano l’Unione Europea ti regala, ogni anno, un bel po’ di quattrini (e se poi i terreni li cedi a una multinazionale è ancora meglio…).

La politica dei prezzi bassi, imposta dalle multinazionali, rende non conveniente produrre il grano duro. La prova l’abbiamo avuta la scorsa estate, quando il prezzo del grano del Sud Italia è stato fatto precipitare a 14 Euro al quintale. Per potere prendere qualcosa, un produttore di grano duro del Mezzogiorno del nostro Paese deve vendere il proprio grano duro a 23-24 Euro al quintale. Con il prezzo al 14 Euro al quintale può sbaraccare direttamente l’azienda agricola.

Ma gli agricoltori del Sud Italia non si sono arresi. Tanto per cominciare, visto che il grano è un prodotto che si può stoccare, l’hanno conservato. Poi, partendo dalla Puglia, hanno dato vita a un’associazione – GranoSalus (che oggi associa produttori di grano duro di tutto il Sud Italia e tanti consumatori) – annunciando una campagna di controlli sui derivati del grano, a cominciare dalla pasta.

A partire da quest’anno – si dovrebbe iniziare a fine gennaio – partiranno i controlli sui prodotti finiti derivati dal grano. Per raccontare ai consumatori, con i dati delle analisi alla mano, cosa c’è dentro i prodotti che arrivano sulle loro tavole.

Contemporaneamente è iniziata una campagna d’informazione, della quale I Nuovi Vespri (non lo facciamo per auto-incensarci: è la verità) è stato tra i protagonisti. Cosicché oggi termini come glifosato e come micotossine DON sono ben noti tra i consumatori.

Non solo. Grazie alla campagna di GranoSalus e all’informazione sui problemi che certi grani esteri possono provocare alla salute umana, la grande industria della pasta italiana ha deciso di virare sul grano duro del Sud Italia.

L’economia politica insegna che, all’aumentare della domanda di un prodotto, dovrebbe aumentare anche il suo prezzo. In Italia – per la precisione, nel Mezzogiorno d’Italia – da settembre ad oggi si è verificata una cosa strana: la domanda di grano duro italiano è aumentata, ma i prezzi di questo prodotto, o sono cresciuti in ragione meno che proporzionale all’aumento della richiesta, o – addirittura! – non sono cresciuti affatto.

Come mai questa ‘magia’? Così entriamo nella polemiche che, da un paio di mesi, GranoSalus solleva nei confronti delle istituzioni pubbliche che dovrebbero vigilare sul regolare andamento dei prezzi.

Non è mancato l’intervento del Parlamento nazionale che, con una legge, ha introdotto le CUN: Commissioni che dovrebbero verificare il corretto andamento dei prezzi. Solo che la legge non è ancora applicata.

Intanto la grande industria della pasta è passata al contrattacco, appoggiata – e questo è incredibile! – da alcune organizzazioni agricole. Gli industriali della pasta propongono i ‘Contratti di filera’: gli industriali si impegnano a pagare il grano duro 28 Euro al quintale, ma in cambio gli agricoltori debbono coltivare le varietà di grano indicate dagli stessi industriali e con tecniche di coltivazione indicate sempre dagli industriali.

Benché ‘consigliati’ da alcune organizzazioni agricole, i ‘Contratti di filiera’, come ha spiegato Cosimo Gioia – un produttore di grano duro della Sicilia che, da anni, si batte per il rilancio di questa coltura – non sono convenienti:

“Intanto impongono ai nostri agricoltori varietà di grano duro che servono all’industria. Questo sarebbe nulla se la coltivazione di tali varietà non presupponesse il ricorso a massicce concimazioni azotate. Queste concimazioni hanno un costo, che è a carico degli agricoltori. Già le concimazioni azotate a iosa annullano la convenienza economica. Il tutto per produrre un grano duro iper-proteico che serve all’industria”.

E qui entra in scena il glutine. Per anni ci hanno detto che il glutine – sostanza proteica tipica del grano duro – serve per conferire alla pasta la tenuta durante la cottura. Tutto vero. Ma l’eccesso di glutine serve all’industria della pasta per risparmiare sui costi di produzione (essiccamento della pasta in due ore invece che in ventiquattr’ore). Con l’inconveniente che può provocare problemi.

Tante le sfaccettature del mondo del grano duro. Con riflessi economici non indifferenti.

L’analisi economica che leggiamo nel sito Su la testa riassume bene lo scenario attuale:

“Il mercato del grano, e non solo, è ormai una giungla senza regole. Siamo ormai a livelli così esagerati di importazioni che il prezzo a cui mediatori e grandi industrie acquistano il grano sono diventati tanto bassi da renderne sconveniente la coltivazione. Il rischio è che migliaia di ettari coltivati anche con grani di elevata qualità vengano addirittura abbandonati. È un rischio che porterebbe alla desertificazione di un territorio (si pensi alle zone della Murgia tarantina) oppure a situazioni di dissesto idrogeologico per la conseguente mancanza di cura del territorio”.

Come abbiamo già detto, l’abbandono dei terreni nel Sud Italia dove veniva coltivato il grano duro è una realtà.

Noi, invece, non crediamo che i grani duri di alta qualità – per esempio, i grani antichi della Sicilia – vengano abbandonati. Noi pensiamo che sia già dietro l’angolo una speculazione, come abbiamo scritto nel luglio dello scorso anno nel seguente articolo:

La crisi del grano duro in Sicilia: le mani delle multinazionali sui grani antichi dell’Isola?

Domanda: chi è che ha tratto benefici dalla crisi del grano duro imposta al Sud Italia?

“A beneficiare del crollo del prezzo del grano sono stati esclusivamente grandi mediatori e grosse aziende alimentari – leggiamo ancora nel sito Su la testa -. Malgrado le riduzioni di oltre il 30 per cento della materia prima grano, pane e pasta non hanno subìto alcuna riduzione di prezzo. Attualmente, lamentano gli agricoltori, le importazioni di grano sono praticamente libere, non regolamentate da leggi che in qualche modo tutelino produzione italiana che garantisce sicuramente maggior controllo della filiera e quindi maggiore sicurezza per i consumatori. I maggiori costi di mano d’opera e la maggiore tassazione rendono i produttori nostrani meno competitivi rispetto a quelli dei mercati esteri”.

Poi c’è il tema che abbiamo già accennato: l’indicazione, nell’etichetta, della provenienza del grano:

“La mancanza di obbligo da parte delle aziende di pasta e altri farinacei di indicazione di provenienza del grano da esse utilizzato non favorisce il consumatore che volesse scegliere consapevolmente il prodotto da acquistare e innesca una spirale di discesa del prezzo del cereale sempre più nefasta per gli agricoltori italiani. Il prezzo del grano lo fanno, in pratica, le grandi multinazionali: i piccoli produttori possono solo adeguarsi, se ci riescono, o sospendere la produzione”.

Su questo punto – l’obbligo di indicare la provenienza della pasta, previsto da una recente legge italiana – attendiamo indicazioni dall’Unione Europea.

Vedremo come finirà.

Qui potete leggere per esteso l’articolo pubblicato dal sito Su la testa

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Foto tratta da controculturamare.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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